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Geografie sommerse: una inconfondibile poetica, una rigorosa composizione, un segno tanto preciso quanto inequivocabile. Queste tre caratteristiche fanno delle immagini di Monika Bulaj un assoluto cammeo nel mondo spesso confuso e contraddittorio della fotografia contemporanea. Il lavoro sul sacro, sulle minoranze religiose, sui pellegrini, sulle zone franche assediate, realizzato dalla fotografa polacca trasferitasi anni fa a Trieste, è paragonabile per forza narrativa ai grandi reportage di Sebastiao Salgado sui minatori brasiliani e sulle devastanti condizioni in cui vivono e devono forzatamente lavorare. Ma Monika Bulaj non esibisce le ferite e le cicatrici dei corpi. Guarda invece all’anima e compie piccoli grandi miracoli con obiettivo della sua fotocamera. Riesce, in questi tempi devastati e indifferenti, a far pensare; apre la mente di chi guarda le sue fotografie alla complessità culturale di questo mondo, offre rischiando in prima persona, una testimonianza sulla vita di tanti che vivono accanto a noi ma di cui non sappiamo nulla, nemmeno il titolo. Monika Bulaj non grida, non impone nulla con le sue immagini. Agisce con tenerezza. Non ci butta in faccia il disagio, non esibisce il dolore e la violenza. Ci invita sommessamente, a guardare, pensare e capire. Poi ognuno deciderà se ascoltare il messaggio che periodicamente, da più di trent’anni, la fotografa ci invia. Claudio Erné, Il Piccolo, 2023

 

Ha la capacità di cogliere e poi insinuarsi con naturalezza nei pertugi dell’anima. Scova la crepa, l’interstizio, la porta di accesso a ciò che la maschera quotidiana tiene celato. Eppure, la sua parlata, in cui si coglie ancora l’origine polacca, è asciutta, poco incline alle smancerie, essenziale. Spesso si spezzetta e si interrompe, in attesa. Monika segue un’intuizione del momento, che magari le è nata da una tua osservazione. Perché Monika, a differenza di tanti, ascolta. È proprio la capacità di ascolto e il carisma naturale che le hanno aperto le porte di popoli lontani, colti nella loro intimità, nei momenti più privati: un pasto, una preghiera, una pausa negli affanni quotidiani, un rito. La fotografa supera le soglie con rispetto, offrendo una partecipazione che passa spesso attraverso gli sguardi o una ciotola condivisa. Stiamo parlando di minoranze, di un’umanità povera in fuga, vessata dalle persecuzioni e dai fondamentalismi, storie di nomadi diventati, loro malgrado, stanziali e, viceversa, di popoli oppressi, nomadi per necessità di sopravvivenza. In Caucaso, nel Medio Oriente, in Africa o sull’altopiano iranico, ad Haiti e in altri luoghi del mondo. Donatella Ferrario, “La fotografa che sta in ascolto dell’invisibile”, mensile “Jesus”, Edizioni San Paolo, 2023

Monika è soprattutto una straordinaria esploratrice di confini, quelli veri, quelli che se li superi ti succede qualcosa, rischi qualcosa. Quelli che non si vedono, magari, ma si sentono: e li incontri spesso non ai bordi dei mondi della modernità, ma al loro cuore, passano attraverso le città, le classi, i generi.
Bene, era per dire che quei suoi libri nascono, vivono e ci arrivano avvolti di parole: pensate, scritte e da leggere, se vuoi capire. Ognuno di essi ha un progetto e una mappa, una direzione, una partenza, una meta. In Genti di Dio Monika ha affrontato un lungo, estenuante, quasi fiabesco viaggio fra le minoranze religiose ed etniche dell’Est europeo. Per realizzare Nur ha percorso l’Afghanistan dei villaggi, dal confine con l’Iran a quello cinese, in molti modi e con molti mezzi, bus, taxi, piedi e anche dorso di yak, semiclandestina, a volte coperta da un burqa, rifiutando il ruolo di embedded nelle unità militari dell’Occidente, rischiando quello di viaggiatrice in un campo minato. Leggere in quei libri i suoi lunghi intensi racconti, che non sono diari di viaggio ma pensieri in viaggio, non è un corredo, è parte stessa del vedere le immagini.
Ma questa volta no. Geografie sommerse (lo potete trovare, autografato, direttamente sul sito dell’autrice https://www.monikabulaj.con/libri/ ) ha solo alcuni brevi testi e una introduzione, di tre pagine, che spiega il titolo: ossia che questo libro è un atlante “delle minoranze a rischio nei loro luoghi sacri, che confonde le mappe mentali basate su dogmi ed esclusioni”. È un atlante di “andanti”, che non sono solo migranti, ma gente che ha scelto il cammino in un mondo che non tollera il movimento degli esseri umani, ma solo quello delle merci. (…) Ho sfogliato, lentamente, questo libro, sentendomi anche io, come lettore affezionato degli altri libri di Monika, un po’ lasciato andare a vanti da solo, senza la stretta di mano della guida. Ma mi sono trovato bene. Non mi sono sentito smarrito. Perché il libro ha una struttura così forte, che smarrirsi è impossibile. (…) È una fotografia di decifrazione, che disconnette la raccolta delle immagini e la riconnette secondo relazioni che abbiano più senso di quelle di causa-effetto e di prossimità-scenario del fotogiornalismo classico. Non so dire se sia questo il genere di fotografia del reale che riuscirà a sopravvivere alla crisi dei media editati, al crollo dell’attenzione pubblica, al sabotaggio perfido dei nuovi padroni degli spazi di incontro, al ghigno superintelligentemente stupido dei robot.
So però che è indispensabile che qualcuno guardi, ancora, e ricomponga gli sguardi per vedere di più di quello che le immagini mostrano. So che è anche urgente farlo, perché il mondo molto velocemente sta cadendo in una spirale di invisibilità coatta, in una nebbia artificiale accuratamente disseminata.
Anche Monika sembra sentire questa urgenza. “Talvolta ho un fedele compagno di viaggio: il timore di essere in ritardo. Che io stia mappando i luoghi da eliminare?”.
Le fotografie di Monika, ha scritto di lei padre Enzo Bianchi, ci riportano al comandamento biblico della memoria. Comunque vada, sono fotografie necessarie. È una delle missioni più politiche che ci rimangano da compiere.
So che questo libro è costato molto, anche umanamente, a Monika.  “La bellezza, la meraviglia, la fragilità, attirano spesso le ombre e i mostri. A gogo. Sono abituata e non mi stupisce. Faccio quello che posso. E do quello che riesco a dare”.
Ma in un video postato sul suo profilo social, l’ho vista Monika con un gruppo di donne della Sierra Leone. Lei, esile, candida di carnagione, tutta vestita di nero, zainetto sulle spalle, al centro di un cerchio di donne dalle forme generose, dalla pelle nerissima e dai vestiti sgargianti. Mi è sembrata felice come una bambina. “L’ultimo compito della fotografia del reale. Pensieri su un libro di Monika Bulaj” di Michele Smargiassi, FOTOCRAZIA, La Repubblica, 2023

“Dove gli dei si parlano  (…) è un’impresa davvero unica. Da qualche parte sui confini. Nell’incrocio, laddove in una direzione ci sarebbe il teatro, nell’altra una conferenza performativa, nella terza una mostra fotografica, nella quarta un concerto, nella quinta un incontro con la Storia e le storie. (…)

Le opere fotografiche di Bułaj sono micro-narrazioni emotive. Belle come le opere dei maestri olandesi della “Golden Age”. Allo stesso tempo sensuali ed eteree. Cercando di catturare le cose più sottili, ovvero l’uomo in contatto con il sacro. Allo stesso tempo, Bulaj non commenta tanto le fotografie in successione, quanto ci accompagna in un viaggio attraverso religioni e paesi esotici, attraverso questi “luoghi non scontati” e “luoghi-ponti”, monasteri, villaggi e tribù. Le sue osservazioni possono essere divertenti, sentimentali, brillanti, originali e belle, oltre che toccanti, intriganti, profonde e significative. Tutto questo ipnotizza e inebria. Ti mette in trance.

Nelle sue foto Bulaj il più delle volte è vicina, sorprendentemente vicina alle persone, come se fosse un’emissaria di quell’altra dimensione che le guarda, verso la quale sono dirette le loro richieste e speranze. È una vera sfida, che intraprende ancora e ogni volta nonostante i numerosi pericoli, le attrezzature danneggiate, le malattie esotiche in agguato da tutte le parti, in attesa per molte ore, molti giorni, in veri e propri giochi di spionaggio. Perché lo fa? Perché “la fotografia è un privilegio” – come ha spiegato nella conversazione post-spettacolo, che si è rivelata non meno affascinante dello spettacolo stesso. Bulaj è un esempio di artista pienamente responsabile con un senso della missione molto personale. È un’artista priva di pathos a buon mercato e del desiderio di scioccare, ma affida un ruolo enorme alla sensibilità etica e al rispetto dei confini stabiliti. Quando dice dei suoi personaggi: “Darei l’anima per capire di cosa ridono”, sentiamo una carica di delicatezza e sincerità del tutto disarmante e ammirevole, che raramente si trova oggi”. “Wędrówki i rozdroża”, Henryk Mazurkiewicz, 2019

Se coraggio è diventare cacciatori di orrori e mutilazioni, muoversi con mezzi blindati, mimetica e giubbotto antiproiettile, magari mettendo a rischio vite altrui (interpreti, autisti, stringer, testimoni), allora Monika non è coraggiosa. Se invece coraggio è penetrare nei luoghi più segreti dove non osano nemmeno le forze armate, muoversi da soli, fuori dal “branco”, e assumere solo su di sé i rischi della propria missione, condividendo con le popolazioni locali usi, costumi, cibo e mezzi di trasporto, e soprattutto se coraggio è rompere gli stereotipi cari alle redazioni dei giornali, offrire visioni del mondo spiazzanti e alternative a quelle del perenne conflitto bipolare, e andare alla ricerca degli “ultimi” per raccogliere le voci di coloro che nessuno racconta allora non posso trovare persona più coraggiosa di M B. Ho viaggiato con lei sulle frontiere dell’Europa orientale e sulle strade della Terra Santa. Conosco i suoi lavori sull’Africa sahariana ed equatoriale, l’Egitto e il Corno d’Africa, i cristiani e i musulmani d’Etiopia, il Caucaso, l’Iran e i Balcani, e anche le sue trasferte pazzesche alla ricerca dei riti woodoo negli spazi più insicuri di Haiti. Ma è in Afghanistan – dove è stata più volte e in tutte le stagioni, dalle pianure ai 5000 metri alle montagne più impervie – che M B mostra al meglio la sua bravura di raccontare il mondo. Tanto più che essa non produce immagini a corredo di articoli altrui, ma scrive direttamente le sue storie, assumendo su di sé la fatica di due piani di lettura. Questa freelance madre di tre figli, armata solo di una Leica nascosta sotto il burqa, ha affrontato viaggi anche a piedi, a cavallo o con lo yak, in strade battute da soli maschi, e dosando in modo sapiente mimetismo e rispetto, empatia e sfrontatezza, ha superato check point talebani per penetrare in territori tribali dove nemmeno l’Armata rossa o le forze Nato hanno osato farsi vive via terra. M B non si è mai preoccupata di certificare il proprio coraggio, ma le immagini di questo suo Afghanistan inedito, crudele e tenerissimo, bastano ampiamente a dimostrare la sua capacità di entrare in punta dei piedi negli spazi più intimi di ambienti off limits, normalmente proibiti alle donne. Essa si sofferma su tutto questo senza  voyerismo, guardando con rispetto e pietà i corpi di un’umanità sofferente, esaltandone la nobiltà e bellezza anche nei luoghi dell’orrore. M B non violenta i luoghi, ma ne diventa parte, e forse per questo raggiunge luoghi e persone spesso sconosciuti ai reporter d’assalto. La sua capacità di farsi accettare può essere efficacemente sintetizzata dall’avvertimento che un mullah di Kabul, dopo averla incontrata, ha lanciato pubblicamente contro chiunque intendesse farle del male. Paolo Rumiz, La Repubblica

“Oggi entrerò in Afghanistan” scrive a un certo punto del suo libro Monika Bulaj. Sappiamo ormai che cosa significa il verbo “entrare” sulle sue labbra. Quando arriviamo a quelle parole, siamo già passati con lei per un pezzo di Tagikistan. Siamo stati nel paesaggio, nelle persone, nei loro racconti, dentro la loro fede, il loro destino. Monika Bulaj, reporter polacca, scrittrice e fotografa, abita da anni in Italia, nella sua seconda patria è considerata una sorta di giovane maestro. Maestro dello sguardo, dell’osservazione del mondo. Sia pure della verità che prima di conoscere con gli occhi bisogna farlo con le gambe.  Monika Bulaj cammina sulla terra che vuole conoscere con la propria pelle. Con le mani, la pianta dei piedi. Si fa male. Ascolta più che parlare. Non fa domande. Aspetta che qualcuno dica qualcosa di sé. Per questo il sapere che deriva dagli incontri non è forzato, ma necessario, fluisce dell’esperienza non spinto dalla situazione. Maturo per essere raccontato. Monika Bulaj è presenza coraggiosa, senza compromessi in più mondi allo stesso tempo. Con il suo racconto coglie il luogo e la dimensione nella quale avviene l’ incontro. Spazio e tempo simili a quel punto  nella Creazione dell’Uomo di Michelangelo della Cappella Sistina in cui fra il dito del Creatore e l’indice dell’Uomo scorre nei due sensi una scintilla di vita nel momento della nascita della divinità e dell’umanità. Tutto Nur è un libro sulla preghiera. Qualcuno direbbe sulla vita in Afghanistan. E assolutamente la stessa cosa nel momento in cui l’estrema concentrazione di uomo e Dio si rilascia nella concentrazione dell’osservatore. Nur è un libro su uno stato che abbiamo perduto e su luoghi che non conosciamo. Bello, poetico e realistico insieme, narrativo e più grande della realtà stessa. Libro che ci permette di comprendere un’altra civiltà attraverso la nostalgia che è in noi. In un mondo di intense migrazioni non c’è aspirazione più grande per immagine e parola. In Monika Bulaj è un’aspirazione  realizzata. Jarosław Mikołajewski

 

«Fotografa e documentarista tra le più apprezzate al mondo, Monika Bulaj, poliglota e viaggiatrice infaticabile, solca da anni le contrade dell’Europa orientale, dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Le percorre per cercare volti, persone, paesaggi, storie, significati. E li va a scovare dove pochi altri oserebbero entrare. Nell’accostarsi di Monika Bulaj al meraviglioso mondo afghano c’è il distacco dell’osservatore attento e il coinvolgimento di chi condivide la comune condizione umana: davvero le sue foto non sono imparziali, sono parte di quel mondo che per qualche ora la sua magia fa diventare anche il nostro». Enzo Bianchi, «La Stampa», Torino

Monika è una straordinaria esploratrice di confini: quelli veri, quelli che restano nel mondo che si pretende globalizzato e che invece ha spostato le sue frontiere dai bordi al cuore. Monika non viene dalla fotografia, viene dalla parola: filologia, teatro, scrittura, e le sue fotografie lo mostrano. Solo lei forse, una donna, una donna di parola e di parole, poteva attraversare un paese pittoresco (sì, costretto ad essere pittoresco come pittoresca è diventata la guerra) ascoltandone le lingue diverse e represse, studiandone i gesti diversi e repressi, alla fine tornando senza immagini di guerra guerreggiata, ma con una mappa emotiva di luoghi percorsi, appunto, da confini insormontabili e invisibili, massacrato dalle vere e più feroci guerre di oggi, quelle che i popoli combattono contro se stessi, uomini contro donne, adulti contro bambini, credenti contro infedeli, credenti contro credenti…
Non mi disturbano i Caravaggio, i Vermeer che spuntano qua e là: sono l’antidoto pittorico al pittoresco, al finto realismo della fotografia da Wpp. E’ il suo paradossale sberleffo allo “stile”, e un avvertimento a chi, nelle sue foto, vede solo pennellate di luce. Questo lavoro di Monika, come quello straordinario sull’Est europeo, è forse il racconto più “politico” sulla contemporaneità che mi sia capitato di vedere da molto tempo.
«Nel pianeta dei conflitti asimmetrici, gli unici confini duri sono quelli che separano il visibile dal non visibile. Se Monika Bulaj intitola L’altro Afghanistan il frutto (in mostra al Palazzo Ducale di Venezia fino al primo ottobre) di due anni di occhi aperti dietro l’ obiettivo della sua Leica, nel paese più guardato e meno visto della geopolitica, è sicuramente una provocazione: c’è un Afghanistan solo, ma non è quello che ci raccontano i reportage di guerra. La guerra non si vede mai, ma è dappertutto nelle fotografie di Bulaj, incistata e endemica in ogni atto domestico o pubblico, in ogni gesto di un popolo che della guerra ha fatto uno stato dell’anima, un elemento dell’ambiente, un criterio regolatore delle abitudini.
Bulaj, polacca di nascita, triestina di residenza, filologa di formazione, un amore per il teatro prima che per la fotografia (che si vede tutto), ha percorso l’Afghanistan dei villaggi, dal confine con l’Iran a quello cinese, in molti modi e con molti mezzi, bus, taxi, piedi e anche dorso di yak, semiclandestina, a volte coperta da un burqa, rifiutando il ruolo di embedded nelle unità militari dell’ Occidente, rischiando quello di viaggiatrice in un campo minato, sfruttando il “doppio privilegio” di essere donna per le donne (e dunque ammessa dove i maschi non possono), e ospite per gli uomini (e dunque da proteggere). Chi vuole può divertirsi a cercare nelle immagini di Bulaj le citazioni della pittura classica, da Caravaggio a Rembrandt a Vermeer. Chi conosce le sue esplorazioni, soprattutto quella lungo i confini dell’Est europeo, sa che le forme classiche sono per lei un codice che le permette di scavalcare il problema delle forme e arrivare al cuore della sua ricerca: la scoperta e il racconto degli infiniti sottomondi precari, microuniversi di culture e di sentimenti e di lingue e di religioni che sopravvivono fin quando sarà loro possibile negli anfratti ancora non raggiunti dalla grande livella della globalizzazione. In Afghanistan come già altrove, Bulaj cerca quello che un saggio chiamò l’”indicibile dei vinti”, per mostrarlo al “dubbio dei vincitori”». “L’Afghanistan secondo Monika Bulaj. Scatti da una guerra quotidiana”, d Michele Smargiassi, «La Repubblica», 2011

 

«Il viaggio nei territori spirituali della yiddishkeit e in quelli residuali e rinascenti del khassidismo che Monika Bulaj ha compiuto e ritessuto ripetutamente in questi tempi di atroce tirannia del danaro e di globale volgarità, ha del miracoloso. Il suo racconto si dipana con accenti umani stupefacenti e sconvolgenti appena oltre il confine della cotenna conformistica di noi occidentali smarriti e protervi. A distanza di ottant’anni ritroviamo nelle pagine di “Genti di Dio” il ritmo “giornalistico” e la passione letteraria del grande Joseph Roth di Juden auf Wandershaft, il mitico reportage che seppe raccontare l’Ostjudentum ancora vivo e pulsante nella cornice di un crepuscolo struggente e malinconico, proprio sul limitare della sua estinzione. … Monika come una rabdomante sa cogliere nell’immagine e nella parola l’inarrestabile energia spirituale che promana dal “resto”, dalla densità vitale dei pochi sopravissuti al hurbn, la distruzione degli ebrei voluta dai nazisti e vilmente accettata dall’Europa. La fibrillazione laicamente estatica che si percepisce inarrestabile nei gesti della Bulaj siano essi scatti o parole promanano da un’energia prepotente, il dybbuk dell’ebraismo polacco ridotto in cenere che la possiede». “Genti di Dio”, Frassinelli 2008, dall’introduzione di Moni Ovadia

«Se avete il sospetto che la fede non stia nelle piazze strapiene o nel marmo delle cattedrali, ma nelle periferie, nei villaggi ai confini dell’impero, allora guardate il lavoro di Monika Bulaj sui microcosmi perduti dell’Est».
Paolo Rumiz, «La Repubblica», Roma

«In “Genti di Dio” il valore della rivisitazione fotografica e narrativa … è sopratutto di saper communicare con fresca immediatezza gli aspetti tragici di quella storia… e con la forza del fotografo sensibile e dello scrittore curioso capace di trovare nel dettaglio l’essenza della situazione». Lorenzo Cremonesi, «Corriere della Sera», Milano

«Le sue foto hanno l’odore della terra umida, dell’incenso, trasmettono la luminescenza dei ceri, riflettono la chiarezza del cielo pannonico. E oggi Monika Bulaj è riconosciuta nell’universo della foto artistica». Gauillame Prebois, «Le Soir», Bruxelles

«Si può pensare ai film di Andrej Tarkovskij o ai dipinti di Caravaggio. … Gli uomini, vecchi e giovani, di queste regioni … forse hanno riconosciuto nella fotografa una loro simile; sono uomini … che custodiscono segreti, cantano con pienezza la gioia di vivere e per il loro andare oltre i confini confessionali si dimostrano un po’ come i “folli di Dio”. Chiunque osservi queste foto, si potrà chiedere … per quanto tempo ancora ci saranno queste piccole genti di Dio.» Annette Krauss, «Donaukurier», Munchen

«Monika Bulaj è una “cercatrice di luce”.. Non le interessano i confini tra culture, ma i luoghi dove proprio l’inconciliabile già da lungo tempo si è mescolato. … Rispetto per lei significa lavorare senza flash, perché cerca la luce, anche quando c’è solo una penombra in cui i contorni si perdono. Così nascono immagini che fanno intuire ancora il movimento.» Christiane Schlotzer, «Suddeutsche Zeitung», Munchen

«Sono riflessi di un’unica luce i tredici racconti di viaggio di Monika Bulaj. …. Ma quello che più impressiona di questo mondo … è la quotidianità di gesti ed espressioni, l’universitalità di usanze a prima vista così particolari, la ricchezza di umanità che traspare da paesaggi, figure, racconti. Eppure, nonostante l’abisso del male, i riflessi di quella luce non cessano di baluginare: un fotogramma o una parola possono esaudire il comandamento biblico della memoria, possono rendere nuovamente presente ciò che non è mai passato perchè appartiene al futuro dell’umanità». Padre Enzo Bianchi, «La Stampa», Torino

«Questa antropologa curiosa, colta e appassionata, viaggia dal Marocco all’Iran su linee di frontiera che non troverete sulle carte, tra ciò che conosciamo e il mondo che rimane nascosto nel cono d’ombra della storia».
Andrea Valesini, «L’Eco di Bergamo»

«Il libro Genti di Dio è … un atlante della diversità intessuto di storie. La galleria fotografica è un racconto nel racconto fatto di volti, espressioni, istanti, paesaggi, interni, … che dicono dell’eclettismo tecnico della fotografa, e della sua ricerca tesa a dare anche la percezione visiva della ricchezza, della meraviglia, insita in ogni diversità. Soprattutto oggi, in un tempo in cui tanti guardano alle differenze entiche, culturali e religiose con crescente sospetto se non aperta ostilità». Pietro Spirito, «Il Piccolo», Trieste

«Attraversa le frontiere d’Europa per catturare le immagini di una fede bollata come «popolare, folcloristica, esaltata». Un mondo di minoranze che il Muro ci ha impedito di conoscere per lunghi anni e ora rischia di sparire». Marina Nemeth, «Il Riformista», Milano

«Pazienza e impazienza, un soffermarsi meditativo e talvolta anche un ritmo rapidissimo mi sembrano essere caratteri tipici dei suoi lavori… In alcune fotografie predomina un’indeterminatezza che sottolinea l’irrequietezza e la passione, quando ad esempio sono scelti come motivi la danza e il gioco. Di fermo o nostalgicizzante qui non c’è nulla, molto però è in movimento. E non è lo scomparire anche una forma di movimento…?» Carl-Wilhelm Macke, «Zur Debatte», Munchen

«Il suo lavoro è un’occasione straordinaria di capire che non siamo solo europei, ma che ci sono minoranze culturali e religiose che il Muro tra Est e Ovest ci ha impedito per anni di conoscere». Vittorio Bonanni, «Liberazione», Roma

«La luce, tutta interiore, esplode in sequenze blu notte, rosso e giallo oro. I volti – vecchie monache che biascicano le litanie, giovani donne che al corteo funebre portano il cibo per i morti, sposi che mostrano una icona sacra per essere accolti dalla comunità. L’obiettivo di Bulaj ritrova tracce del fervore apocalittico che contagiò la Polonia Nord Orientale nei primi decenni del secolo scorso e le traspone nei colori panici e nella luce che accelera la corsa estatica della donna scalza fra il grano maturo». Geraldina Colotti, «Alias», Roma

«Voi, che avete la gioia di contemplare queste immagini, lasciatevi trasportare dai percorsi fra buio e luce».
Lanfranco Colombo, Galleria Diaframma, Milano

«Ci fosse giustizia, “Genti di Dio” sarebbe libro di testo nelle scuole. Con l’ausilio di una prosa raffinata e toccante e di decine di fotografie mostra come la convivenza tra le persone di etnie, nazionalità, fedi diverse sia possibile. … Volti segnati da un tempo senza inizio e senza fine, catturati dietro a finestre che sembrano non esser mai state aperte, con vetri sempre impolverati e , quando rotti, mai sostituiti; … villaggi spersi in regioni impervie, cristalizzati dal gelo e dalla neve…» Alessandro Marrongiu, «Liberal», Torino

«Donne, tante donne. Donne che pregano. Donne che leggono il Libro. Donne che studiano. Donne che sfilano. Donne che accendono ceri, che danzano, che cantano. Donne che dicono d’una fede femminile, che piace immaginare sia molto meno capace (del tutto incapace?) d’uccidere e dividere in nome della sua verità.». Angelo Agostini, «Alto Adige», Trento

«Si tratta di sensibilità umana. Che siano i molteplici significati del velo, le storie degli esili o quelle dei pellegrinaggi, al centro c’è sempre l’uomo: nel suo rapporto con la natura e con il corpo, alle prese con il mistero della vita e della morte. L’uomo nella sua dimensione primordiale, tra paura e necessità di condivisione.» Federica Salzano, Il Messaggero