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“Dove gli dei si parlano (…) è un’impresa davvero unica. Da qualche parte sui confini. Nell’incrocio, laddove in una direzione ci sarebbe il teatro, nell’altra una conferenza performativa, nella terza una mostra fotografica, nella quarta un concerto, nella quinta un incontro con la Storia e le storie. (…)
Le opere fotografiche di Bułaj sono micro-narrazioni emotive. Belle come le opere dei maestri olandesi della “Golden Age”. Allo stesso tempo sensuali ed eteree. Cercando di catturare le cose più sottili, ovvero l’uomo in contatto con il sacro. Allo stesso tempo, Bulaj non commenta tanto le fotografie in successione, quanto ci accompagna in un viaggio attraverso religioni e paesi esotici, attraverso questi “luoghi non scontati” e “luoghi-ponti”, monasteri, villaggi e tribù. Le sue osservazioni possono essere divertenti, sentimentali, brillanti, originali e belle, oltre che toccanti, intriganti, profonde e significative. Tutto questo ipnotizza e inebria. Ti mette in trance.
Nelle sue foto Bulaj il più delle volte è vicina, sorprendentemente vicina alle persone, come se fosse un’emissaria di quell’altra dimensione che le guarda, verso la quale sono dirette le loro richieste e speranze. È una vera sfida, che intraprende ancora e ogni volta nonostante i numerosi pericoli, le attrezzature danneggiate, le malattie esotiche in agguato da tutte le parti, in attesa per molte ore, molti giorni, in veri e propri giochi di spionaggio. Perché lo fa? Perché “la fotografia è un privilegio” – come ha spiegato nella conversazione post-spettacolo, che si è rivelata non meno affascinante dello spettacolo stesso. Bulaj è un esempio di artista pienamente responsabile con un senso della missione molto personale. È un’artista priva di pathos a buon mercato e del desiderio di scioccare, ma affida un ruolo enorme alla sensibilità etica e al rispetto dei confini stabiliti. Quando dice dei suoi personaggi: “Darei l’anima per capire di cosa ridono”, sentiamo una carica di delicatezza e sincerità del tutto disarmante e ammirevole, che raramente si trova oggi”.
“Wędrówki i rozdroża”, Henryk Mazurkiewicz, 16.12.19
“Oggi entrerò in Afghanistan” scrive a un certo punto del suo libro Monika Bulaj. Sappiamo ormai che cosa significa il verbo “entrare” sulle sue labbra. Quando arriviamo a quelle parole, siamo già passati con lei per un pezzo di Tagikistan. Siamo stati nel paesaggio, nelle persone, nei loro racconti, dentro la loro fede, il loro destino.
Monika Bulaj, reporter polacca, scrittrice e fotografa, abita da anni in Italia, nella sua seconda patria è considerata una sorta di giovane maestro. Maestro dello sguardo, dell’osservazione del mondo. Sia pure della verità che prima di conoscere con gli occhi bisogna farlo con le gambe. Monika Bulaj cammina sulla terra che vuole conoscere con la propria pelle. Con le mani, la pianta dei piedi. Si fa male. Ascolta più che parlare. Non fa domande. Aspetta che qualcuno dica qualcosa di sé. Per questo il sapere che deriva dagli incontri non è forzato, ma necessario, fluisce dell’esperienza non spinto dalla situazione. Maturo per essere raccontato.
Monika Bulaj è presenza coraggiosa, senza compromessi in più mondi allo stesso tempo. Con il suo racconto coglie il luogo e la dimensione nella quale avviene l’ incontro. Spazio e tempo simili a quel punto nella Creazione dell’Uomo di Michelangelo della Cappella Sistina in cui fra il dito del Creatore e l’indice dell’Uomo scorre nei due sensi una scintilla di vita nel momento della nascita della divinità e dell’umanità.
Tutto Nur è un libro sulla preghiera. Qualcuno direbbe sulla vita in Afghanistan. E assolutamente la stessa cosa nel momento in cui l’estrema concentrazione di uomo e Dio si rilascia nella concentrazione dell’osservatore.
Nur è un libro su uno stato che abbiamo perduto e su luoghi che non conosciamo. Bello, poetico e realistico insieme, narrativo e più grande della realtà stessa. Libro che ci permette di comprendere un’altra civiltà attraverso la nostalgia che è in noi. In un mondo di intense migrazioni non c’è aspirazione più grande per immagine e parola. In Monika Bulaj è un’aspirazione realizzata.
Jarosław Mikołajewski
«Fotografa e documentarista tra le più apprezzate al mondo, Monika Bulaj, poliglota e viaggiatrice infaticabile, solca da anni le contrade dell’Europa orientale, dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Le percorre per cercare volti, persone, paesaggi, storie, significati. E li va a scovare dove pochi altri oserebbero entrare. Nell’accostarsi di Monika Bulaj al meraviglioso mondo afghano c’è il distacco dell’osservatore attento e il coinvolgimento di chi condivide la comune condizione umana: davvero le sue foto non sono imparziali, sono parte di quel mondo che per qualche ora la sua magia fa diventare anche il nostro».
Enzo Bianchi, «La Stampa», Torino
Monika è una straordinaria esploratrice di confini: quelli veri, quelli che restano nel mondo che si pretende globalizzato e che invece ha spostato le sue frontiere dai bordi al cuore. Monika non viene dalla fotografia, viene dalla parola: filologia, teatro, scrittura, e le sue fotografie lo mostrano. Solo lei forse, una donna, una donna di parola e di parole, poteva attraversare un paese pittoresco (sì, costretto ad essere pittoresco come pittoresca è diventata la guerra) ascoltandone le lingue diverse e represse, studiandone i gesti diversi e repressi, alla fine tornando senza immagini di guerra guerreggiata, ma con una mappa emotiva di luoghi percorsi, appunto, da confini insormontabili e invisibili, massacrato dalle vere e più feroci guerre di oggi, quelle che i popoli combattono contro se stessi, uomini contro donne, adulti contro bambini, credenti contro infedeli, credenti contro credenti…
Non mi disturbano i Caravaggio, i Vermeer che spuntano qua e là: sono l’antidoto pittorico al pittoresco, al finto realismo della fotografia da Wpp. E’ il suo paradossale sberleffo allo “stile”, e un avvertimento a chi, nelle sue foto, vede solo pennellate di luce. Questo lavoro di Monika, come quello straordinario sull’Est europeo, è forse il racconto più “politico” sulla contemporaneità che mi sia capitato di vedere da molto tempo.
Michele Smargiassi «La Repubblica», 12 dicembre 2011
«Nel pianeta dei conflitti asimmetrici, gli unici confini duri sono quelli che separano il visibile dal non visibile. Se Monika Bulaj intitola L’altro Afghanistan il frutto (in mostra al Palazzo Ducale di Venezia fino al primo ottobre) di due anni di occhi aperti dietro l’ obiettivo della sua Leica, nel paese più guardato e meno visto della geopolitica, è sicuramente una provocazione: c’è un Afghanistan solo, ma non è quello che ci raccontano i reportage di guerra. La guerra non si vede mai, ma è dappertutto nelle fotografie di Bulaj, incistata e endemica in ogni atto domestico o pubblico, in ogni gesto di un popolo che della guerra ha fatto uno stato dell’anima, un elemento dell’ambiente, un criterio regolatore delle abitudini.
Bulaj, polacca di nascita, triestina di residenza, filologa di formazione, un amore per il teatro prima che per la fotografia (che si vede tutto), ha percorso l’Afghanistan dei villaggi, dal confine con l’Iran a quello cinese, in molti modi e con molti mezzi, bus, taxi, piedi e anche dorso di yak, semiclandestina, a volte coperta da un burqa, rifiutando il ruolo di embedded nelle unità militari dell’ Occidente, rischiando quello di viaggiatrice in un campo minato, sfruttando il “doppio privilegio” di essere donna per le donne (e dunque ammessa dove i maschi non possono), e ospite per gli uomini (e dunque da proteggere). Chi vuole può divertirsi a cercare nelle immagini di Bulaj le citazioni della pittura classica, da Caravaggio a Rembrandt a Vermeer. Chi conosce le sue esplorazioni, soprattutto quella lungo i confini dell’Est europeo, sa che le forme classiche sono per lei un codice che le permette di scavalcare il problema delle forme e arrivare al cuore della sua ricerca: la scoperta e il racconto degli infiniti sottomondi precari, microuniversi di culture e di sentimenti e di lingue e di religioni che sopravvivono fin quando sarà loro possibile negli anfratti ancora non raggiunti dalla grande livella della globalizzazione. In Afghanistan come già altrove, Bulaj cerca quello che un saggio chiamò l’”indicibile dei vinti”, per mostrarlo al “dubbio dei vincitori”».
“L’Afghanistan secondo Monika Bulaj. Scatti da una guerra quotidiana”, «La Repubblica», 12 Agosto 2011, di Michele Smargiassi
«Il viaggio nei territori spirituali della yiddishkeit e in quelli residuali e rinascenti del khassidismo che Monika Bulaj ha compiuto e ritessuto ripetutamente in questi tempi di atroce tirannia del danaro e di globale volgarità, ha del miracoloso. Il suo racconto si dipana con accenti umani stupefacenti e sconvolgenti appena oltre il confine della cotenna conformistica di noi occidentali smarriti e protervi. A distanza di ottant’anni ritroviamo nelle pagine di “Genti di Dio” il ritmo “giornalistico” e la passione letteraria del grande Joseph Roth di Juden auf Wandershaft, il mitico reportage che seppe raccontare l’Ostjudentum ancora vivo e pulsante nella cornice di un crepuscolo struggente e malinconico, proprio sul limitare della sua estinzione. … Monika come una rabdomante sa cogliere nell’immagine e nella parola l’inarrestabile energia spirituale che promana dal “resto”, dalla densità vitale dei pochi sopravissuti al hurbn, la distruzione degli ebrei voluta dai nazisti e vilmente accettata dall’Europa. La fibrillazione laicamente estatica che si percepisce inarrestabile nei gesti della Bulaj siano essi scatti o parole promanano da un’energia prepotente, il dybbuk dell’ebraismo polacco ridotto in cenere che la possiede».
“Genti di Dio”, Frassinelli 2008, dall’introduzione di Moni Ovadia
«Se avete il sospetto che la fede non stia nelle piazze strapiene o nel marmo delle cattedrali, ma nelle periferie, nei villaggi ai confini dell’impero, allora guardate il lavoro di Monika Bulaj sui microcosmi perduti dell’Est».
Paolo Rumiz, «La Repubblica», Roma
«In “Genti di Dio” il valore della rivisitazione fotografica e narrativa … è sopratutto di saper communicare con fresca immediatezza gli aspetti tragici di quella storia… e con la forza del fotografo sensibile e dello scrittore curioso capace di trovare nel dettaglio l’essenza della situazione».
Lorenzo Cremonesi, «Corriere della Sera», Milano
«Le sue foto hanno l’odore della terra umida, dell’incenso, trasmettono la luminescenza dei ceri, riflettono la chiarezza del cielo pannonico. E oggi Monika Bulaj è riconosciuta nell’universo della foto artistica».
Gauillame Prebois, «Le Soir», Bruxelles
«Si può pensare ai film di Andrej Tarkovskij o ai dipinti di Caravaggio. … Gli uomini, vecchi e giovani, di queste regioni … forse hanno riconosciuto nella fotografa una loro simile; sono uomini … che custodiscono segreti, cantano con pienezza la gioia di vivere e per il loro andare oltre i confini confessionali si dimostrano un po’ come i “folli di Dio”. Chiunque osservi queste foto, si potrà chiedere … per quanto tempo ancora ci saranno queste piccole genti di Dio.»
Annette Krauss, «Donaukurier», Munchen
«Monika Bulaj è una “cercatrice di luce”.. Non le interessano i confini tra culture, ma i luoghi dove proprio l’inconciliabile già da lungo tempo si è mescolato. … Rispetto per lei significa lavorare senza flash, perché cerca la luce, anche quando c’è solo una penombra in cui i contorni si perdono. Così nascono immagini che fanno intuire ancora il movimento.»
Christiane Schlotzer, «Suddeutsche Zeitung», Munchen
«Sono riflessi di un’unica luce i tredici racconti di viaggio di Monika Bulaj. …. Ma quello che più impressiona di questo mondo … è la quotidianità di gesti ed espressioni, l’universitalità di usanze a prima vista così particolari, la ricchezza di umanità che traspare da paesaggi, figure, racconti. Eppure, nonostante l’abisso del male, i riflessi di quella luce non cessano di baluginare: un fotogramma o una parola possono esaudire il comandamento biblico della memoria, possono rendere nuovamente presente ciò che non è mai passato perchè appartiene al futuro dell’umanità».
Padre Enzo Bianchi, «La Stampa», Torino
«Questa antropologa curiosa, colta e appassionata, viaggia dal Marocco all’Iran su linee di frontiera che non troverete sulle carte, tra ciò che conosciamo e il mondo che rimane nascosto nel cono d’ombra della storia».
Andrea Valesini, «L’Eco di Bergamo»
«Il libro Genti di Dio è … un atlante della diversità intessuto di storie. La galleria fotografica è un racconto nel racconto fatto di volti, espressioni, istanti, paesaggi, interni, … che dicono dell’eclettismo tecnico della fotografa, e della sua ricerca tesa a dare anche la percezione visiva della ricchezza, della meraviglia, insita in ogni diversità. Soprattutto oggi, in un tempo in cui tanti guardano alle differenze entiche, culturali e religiose con crescente sospetto se non aperta ostilità».
Pietro Spirito, «Il Piccolo», Trieste
«Attraversa le frontiere d’Europa per catturare le immagini di una fede bollata come «popolare, folcloristica, esaltata». Un mondo di minoranze che il Muro ci ha impedito di conoscere per lunghi anni e ora rischia di sparire».
Marina Nemeth, «Il Riformista», Milano
«Pazienza e impazienza, un soffermarsi meditativo e talvolta anche un ritmo rapidissimo mi sembrano essere caratteri tipici dei suoi lavori… In alcune fotografie predomina un’indeterminatezza che sottolinea l’irrequietezza e la passione, quando ad esempio sono scelti come motivi la danza e il gioco. Di fermo o nostalgicizzante qui non c’è nulla, molto però è in movimento. E non è lo scomparire anche una forma di movimento…?»
Carl-Wilhelm Macke, «Zur Debatte», Munchen
«Il suo lavoro è un’occasione straordinaria di capire che non siamo solo europei, ma che ci sono minoranze culturali e religiose che il Muro tra Est e Ovest ci ha impedito per anni di conoscere».
Vittorio Bonanni, «Liberazione», Roma
«La luce, tutta interiore, esplode in sequenze blu notte, rosso e giallo oro. I volti – vecchie monache che biascicano le litanie, giovani donne che al corteo funebre portano il cibo per i morti, sposi che mostrano una icona sacra per essere accolti dalla comunità. L’obiettivo di Bulaj ritrova tracce del fervore apocalittico che contagiò la Polonia Nord Orientale nei primi decenni del secolo scorso e le traspone nei colori panici e nella luce che accelera la corsa estatica della donna scalza fra il grano maturo».
Geraldina Colotti, «Alias», Roma
«Voi, che avete la gioia di contemplare queste immagini, lasciatevi trasportare dai percorsi fra buio e luce».
Lanfranco Colombo, Galleria Diaframma, Milano
«Ci fosse giustizia, “Genti di Dio” sarebbe libro di testo nelle scuole. Con l’ausilio di una prosa raffinata e toccante e di decine di fotografie mostra come la convivenza tra le persone di etnie, nazionalità, fedi diverse sia possibile. … Volti segnati da un tempo senza inizio e senza fine, catturati dietro a finestre che sembrano non esser mai state aperte, con vetri sempre impolverati e , quando rotti, mai sostituiti; … villaggi spersi in regioni impervie, cristalizzati dal gelo e dalla neve…»
Alessandro Marrongiu, «Liberal», Torino
«Donne, tante donne. Donne che pregano. Donne che leggono il Libro. Donne che studiano. Donne che sfilano. Donne che accendono ceri, che danzano, che cantano. Donne che dicono d’una fede femminile, che piace immaginare sia molto meno capace (del tutto incapace?) d’uccidere e dividere in nome della sua verità.».
Angelo Agostini, «Alto Adige», Trento
«Si tratta di sensibilità umana. Che siano i molteplici significati del velo, le storie degli esili o quelle dei pellegrinaggi, al centro c’è sempre l’uomo: nel suo rapporto con la natura e con il corpo, alle prese con il mistero della vita e della morte. L’uomo nella sua dimensione primordiale, tra paura e necessità di condivisione.» Federica Salzano, Il Messaggero