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Nel Medio Oriente e sul Caucaso, in Asia, lungo i confini d’Europa, sulle sponde del Mediterraneo, sotto i nostri occhi sta scomparendo la ricchezza della complessità, in quelle terre dove per millenni le genti hanno condiviso i santi, i gesti, i simboli, i miti, i canti, gli dei. I cristiani del Pakistan, i maestri sufi d’Etiopia e Iran, gli sciamani afghani, gli ultimi pagani del Hindu Kush e degli Urali, i nomadi tibetani, le sette gnostiche dei monti Zagros. Ultime oasi d’incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca, e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze, sguardi.
E’ un viaggio tra i confini spirituali, nei crocevia dei regni dimenticati, dove scintillano le fedi e le tradizioni dei più deboli ed indifesi, con la loro resistenza fragile ed inerme, la loro capacità al dialogo e all’incontro. In cammino con i nomadi, minoranze in fuga, pellegrini, cercando il bello anche nei luoghi più tremendi. La solidarietà nella guerra. La coabitazione tra fedi laddove si mettono bombe. Le crepe nella teoria del cosiddetto scontro di civiltà, dove gli dei sembrano in guerra tra di loro, evocati da presidenti, terroristi e banditi.
Il lavoro sulle religioni e sulle minoranze a rischio è oggigiorno più che mai politico. La storia, di nuovo, vi ha fatto irruzione. Basta guardare le ferite sui piedi dei profughi in arrivo da noi, in Europa.
Al suo centro sta il corpo, punto chiave e oggetto di discordia nelle religioni. Soprattutto quello femminile, spesso un vero campo di battaglia. Iniziato e benedetto, svelato e coperto, temuto e represso, protetto e giudicato, intoccabile e impuro, castigato e purificato, intrappolato nella violenza che genera violenza, corpo-reliquia, corpo-martire, corpo- trappola, corpo-bomba. Mi piace il pensiero del corpo- tempio, scrigno della memoria collettiva. La fragilità che svela i frantumi del divino nell’uomo.
Immagino un atlante delle minoranze a rischio nei loro luoghi sacri, che disorienti e confonda le mappe mentali basate su dogmi ed esclusioni, sulle concezioni per cui ogni credente debba avere un suo luogo per il quale morire, ma possa anche uccidere, sulla polarizzazione puro-impuro, che già condusse ai campi di sterminio.
Sono geografie sommerse, clandestine, stratificazioni di memorie, copresenze, corrispondenze, che – in un mondo sempre più ristretto come un maglione infeltrito – spezzano la violenza dispiegata, per imporre, pattugliare e rafforzare le cartografie.
Un atlante dunque di luoghi dalle identità incerte, luoghi-ponti, indecifrabili per i barbari.
Anno dopo anno aggiungo un pezzo, una scheggia, una scintilla. Riempio l’agenda del sacro con calendari lunari e solari, ma anche con quello ebraico, musulmano, tibetano ed etiope. Ore elette, solstizi, equinozi, cicli di vita, dalla semina alla transumanza. Talvolta i diversi calendari si sovrappongono, svelando la continuità che abbiamo dimenticato, che fatichiamo a riconoscere.
La mostra “Geografie sommerse” e il libro omonimo a cura dell’autrice; lo spettacolo teatrale, le recensioni.
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