Le ultime oasi d’incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca, e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze, sguardi. In una parola: l’uomo, la sua bellezza, la sua sacralità inviolabile, ostinatamente cercata anche nei luoghi più infelici del Pianeta, seguendo il sole, la luna, le stagioni, i culti e i pellegrinaggi, in una “mappa celeste” che ignora gli steccati eretti dai predicatori dello scontro globale. Un mondo parallelo e poco raccontato che va dall’Asia centrale all’America Latina, dalle Russie al Medio Oriente, e ti riconsegna la bellezza nella contaminazione: i riti dionisiaci dei musulmani del Magreb, il pianto dei morti nei Balcani, i pellegrinaggi nel fango degli Urali, l’evocazione degli dèi in esilio oltremare, sulla rotta degli “scafisti” di un tempo, a Haiti e Cuba, dove la forza spirituale della terra madre diventa rito vudù, santeria, rap mistico, samba, epitalamio e mistero. E ancora il cammino dei nomadi dell’Asia, che si portano dietro le loro divinità, come gabbiani dietro a una barca da pesca nel deserto.
Questo lavoro è cambiato negli anni. All’inizio documentavo le piccole e le grandi religioni nelle ombre delle guerre antiche e recenti.
Ad un certo punto sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele…
Forse solo questo può fare il fotografo: raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando, quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo.
Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare.
Desideriamo che esso sia. SIMONE WEIL
Mi piace il pensiero che ci siano luoghi dove il sacro rompe i confini. Luoghi, momenti, atmosfere in cui i Popoli del Libro rivelano l’appartenenza a una stessa famiglia umana, con o senza Libro. Danze, sfioramento di corpi, carezze alle reliquie. Passaggio della soglia tra sacro e profano, tra luce e ombra. E ancora: infinita ripetizione, prostrazione, sgranare di rosari. Si tratta di luoghi, suoni, gesti, atmosfere, abbigliamenti, luci, percorsi che talvolta inaspettatamente e dolorosamente disvelano una verità comune sulle cose. “Atmosfere” diciamo. “In greco e in latino – scriveva Elémire Zolla – si parla del fascino come di una brezza, un’aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce”. Sento un’aura simile, un carisma nel dolce cantilenare del Padre Nostro nella lingua di Cristo sull’Eufrate, nell’emergere dell’armonia delle quinte dalla tempesta di voci degli hassidim di Rabbi Nachman in Galilea, nei vocalizzi ipnotici e nei sospiri profondi dei sufi chishti di Kabul, nelle preghiere dello shabbat ad Antiochia. “Noi siamo liuti, tu il suonatore, non sei tu che emetti sospiri attraverso essi?”, chiese Jalāl al-Dīn Rumi.
Da molti anni viaggio lungo i confini dei monoteismi, in oasi d’incontro assediate da fanatismi armati, nelle patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Come i santuari dei mistici sufi, che dal Mali fino al Pakistan scompaiono sotto le bombe. Odiati dai wahhabiti, ignorati dagli illuminati riformatori dell’Islam e dall’Occidente, i maestri sufi sono forse la più solida roccaforte contro la barbarie. Riempiono le biblioteche benché alla teoria antepongano l’esperienza, chiamino strada la loro pratica e considerino il fanatico un asino che porta sulla groppa una pila di libri. È grazie a loro che l’Islam dei poveri si è inebriato di misericordia divina, esperienza dei sensi, sensibilità alla bellezza. Sono asili delle fedi, come il Bosforo, sul quale le donne armene e turche si addormentano insieme accanto al sepolcro di un santo bizantino, praticando l’incubatio, di cui si scriveva già prima di Erodoto, anestetizzando con il sonno la memoria dello sterminio che le divide. Come i monasteri nel deserto egiziano, attaccati giorno dopo giorno dai fanatici – là dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che attendono
mezza giornata sotto il sole il proprio turno. Come il Kosovo, dove i musulmani venerano lo sfortunato santo dei serbi re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Come Damasco, dove cristiani, musulmani, sciiti e sunniti pregano fianco a fianco nella moschea degli Omayyadi, presso il catafalco di Giovanni Battista e sotto al minareto di Cristo. Come il monastero Deir Mar Musa, le cui pietre sono state posate nuovamente da cristiani e musulmani, perché qui hanno pregato insieme per un millennio, nella stessa povera Siria. Terre abitate in comune per millenni dove si spezzano le catene delle vendette, si consumano le medesime pietanze, si condividono amici, sogni, canti. Confini dell’oikoumene, lontano dai troni divini e dagli ombelichi del mondo. Rifugio dei dissidenti e incrocio delle rotte delle carovane mercantili, calpestate dai sandali di dervisci e poeti.
Anno dopo anno riempio l’agenda del sacro con gli anniversari di nascita e morte dei santi, con i misteri della fertilità e dei morti, i pellegrinaggi e i sacrifici, a piedi o strisciando – in circolo, nel senso delle lancette dell’orologio o al contrario. Sono ore elette, stagioni, solstizi, equinozi, che legano o tagliano i nodi del tempo: persiano, zigano, ebraico, etiope e così via. Questo breviario di viaggio segue il corso del sole, si sincronizza con le fasi lunari, segnando il ritmo dell’eterno ritorno: una volta ancora, ogni anno dall’inizio, ogni sette anni, per 40 giorni, di nuovo. Ma come discernere, non perdersi, non impazzire fra calendari ed epoche in quell’infinità di segni, misure, alfabeti, da sinistra a destra e all’inverso – ho pensato una volta a Gerusalemme, guardando dalla finestra un muro, infilato nel giardino dei monaci che mi ospitavano, nei pressi del Monte degli Ulivi. Il muro viveva di vita propria, si spostava, cresceva e si allungava, e di notte attraverso una fessura stretta come la cruna di un ago correvano delle ombre: dalla levatrice, dalla moglie o alla sinagoga – per la preghiera del mattino degli ebrei, come il musulmano Awni Amarneh di Betlemme, padre di otto figli, che ne era il guardiano. I palestinesi scivolavano attraverso il muro di notte, per riuscire in qualche modo a vivere, e io di giorno, indossando costumi di scena, come un camaleonte traversavo nella Città Santa invisibili muri fra i fedeli delle religioni sorelle di Abramo. Un giorno la fessura venne sigillata e d’improvviso avvertii che quei calendari autonomi e immaginati a un certo punto si annullavano, si sovrapponevano, ingranavano come ruote d’orologio fra le quali ormai liberamente, senza posti di blocco, si spostavano i vivi e i morti. E che la strada e l’esperienza scrivono una mappa viva del mondo, al di là della storia. Questa a volte riappare, e come un codice cifrato medievale svela momenti nei quali gli dei vanno d’accordo. Occasioni di incontri non ovvi. Elia diventa Khidr il Profeta Verde, San Giorgio a cavallo è venerato nei Balcani da musulmani e cristiani. Pregano Maria le donne musulmane di Istanbul e del Cairo. Lunga è la lista delle identità duplici dei santi – di quelli che primeggiano e dei minori.
Un giorno il Pesach ebraico cade insieme alla Pasqua cristiana alla vigilia dell’anniversario dell’imam Husayn, e nell’anno del Signore 2015, per la prima volta dopo quasi un millennio, i musulmani festeggiano la vigilia della nascita del Profeta Maometto la stessa notte in cui nasce Cristo. Convergenze, coincidenze.
Eppure – benché sia strano ricordarlo oggi – le religioni per secoli si sono guardate e prestate a vicenda gesti, melodie, costumi, santi, come i buoni vicini si prestano il sale. Quando rammento i momenti più intensi e segreti che ho vissuto mi rendo conto che rivelano una coerente solida interezza, una continuità che abbiamo disimparato a osservare, dipendenti come siamo dall’impressione superficiale di cataclisma – oggi qualcuno con fervore suggerirebbe: di conflitto di civiltà – che solo divide. Lo contraddicono i santi. Un buon santo è buono per tutti. Lo contraddice il corpo, veicolo di preghiera e antenna dell’invisibile, attraverso il quale il divino si libera dei limiti e della gerarchia, attirando l’intolleranza e la sessuofobia dei nuovi esclusivi monoteismi armati. Il corpo che danza, ama, recita preghiere, vortica, piange, ride, si inchina, cade in estasi, si arrende e rende, prende a prestito e offre, trafitto dalla lama dell’esperienza. Lo contraddicono i luoghi carichi di simboli nei quali, come il paguro in una conchiglia vuota, si sistemano comodamente i fedeli di altri culti.
Viaggio da sola perché la solitudine senza filtri e protezioni è indispensabile all’incontro ed è sempre una via verso le persone e fra la gente. Ho, è vero, fedeli compagni di viaggio: la fretta e l’ansia di non fare in tempo. A volte non arrivo in tempo. O forse segno i luoghi da eliminare? Troppo fragili non solo rispetto ai fanatismi, ma anche alla mercificazione che trasforma i luoghi santi in luna-park di fotografi.
Meglio allora cancellare nomi, date, percorsi, scrivere con l’inchiostro simpatico le parole chiave su quella mappa celeste che ignora i muri eretti dai predicatori e protagonisti del conflitto globale. Dal cuore dell’Asia all’America Latina, dal Maghreb al Medio Oriente, dalle sorgenti del Nilo alla foce dell’Onega. Là dove dalle temibili ombre dei monoteismi emergono segni, presenze, gesti, sguardi. E allora l’Africa, o piuttosto le Afriche, con i propri dei in esilio come le persone, grembo di archetipi vivi, dove la religiosità, cioè letteralmente “il legame”, è costruita sulla comunione dei vivi e dei morti, sull’incessante conversazione con gli antenati. Luoghi dove le parole non sono separate dalle cose, abitati come la Grecia antica da dei creati a immagine dell’uomo. Le acque sante dei Caraibi. Le rocce nere dell’Atlante. I pali cosmici dell’Afghanistan. Le case degli zaddiq. Le case degli sceicchi. I sepolcri dei poeti. Le grotte dei santoni. I sentieri dei malang. Le tende degli sciamani. Le tende dei nomadi. I sentieri delle loro erranti migrazioni stagionali. I boschi e le fonti del sacro nelle periferie del mondo. Rifugi. Grotte nei monti del Libano e del Kurdistan iraniano. I bracci del delta del Danubio. Le valli nascoste del Caucaso dove i priguni saltano verso il cielo come i sufi e gli hassidim. Luoghi ponte,come quello sul piccolo fiume Grajcarek, vicino Cracovia, che – raccontava Jerzy Nowosielski – indecifrabile per i barbari, congiungeva Bisanzio e Roma. Luoghi dove da secoli si preservano parole trasmesse di bocca in bocca, e con esse il sapere sulle origini, le metafore delle iniziazioni e delle trasformazioni, le ricette per la sopravvivenza. Luoghi “ripuliti” con le bombe, “chiusi” dopo l’ennesima strage di innocenti, condannati dai pulpiti e dall’ambone, ignorati o nel migliore dei casi ridicolizzati. Crocevia santi, nodi, da cui parte il sentiero verso gli abissi dello specchio.
Monika Bulaj. Viaggio nella spiritualità di periferia, Tg3 Nel Mondo con Maria Cuffaro
Prayers of the persecuted around the world, by James Estrin, Lens Blogs The New York Times
Le schegge in bianco e nero di Monika Bulaj sono le anime delle genti di Dio, di Giuseppe Fantasia, Huffingtonpost
Inquadrare brezze celesti, di Laura Leonelli, Il Sole 24 Ore
Radio3 “Qui comincia” di Attilio Scarpellini
Radio3 Fahrenheit
The thrill of the border, interview of Michele Smargiassi, La Repubblica
A possible coexistence between East and West, video
Ai confini della fede, dove il sacro è gioia, di Federica Salzano, Il Messaggero
Il divino quotidiano, di Manuela de Leonardis, Il Manifesto
Luoghi d’incontro tra le religioni, di Gaetano Vallini, Osservatore Romano
Les lamentations de Déméter, par Monika Bulaj, photographe, by Fabien Ribery
Ciò che è vivo non ha copie, di Silvia Guidi, Osservatore Romano