FIGLI DI NOÈ
DVCam, Colore, Azero, Russo, sottotitoli italiani
Regia: Monika Bulaj
Fotografia: Monika Bulaj, Aleksander Masseroli Mazurkiewicz
Montaggio: Monika Bulaj, Alberto Valtellina
Produzione: Lab 80 film
Distribuzione: Lab 80 film
Durata: 95’ / Anno: 2006 / Nazione: Italia
La macchina da presa si muove tra i villaggi dell’alto Caucaso, nell’Azerbaigian settentrionale, abitati da antichissime tribù come gli ebrei della montagna. Monika Bulaj entra in questo mondo da sola e con figlio di 15 anni, e ne condivide l’esistenza e i gesti quotidiani, le magie e i misteri. Le case si inerpicano sulla montagna, nelle veglie gli uomini raccontano storie sempre diverse, quella gente sembra appartenere insieme alla terra e al cielo. Il tempo è quello delle stagioni, degli spostamenti con le greggi, della durata della luce; ma è anche quello delle feste e dei riti propiziatori. Un’avventura dello sguardo che è ricerca e avvicinamento al senso delle cose.
Come quella incantata di Thomas Mann o quella sacra di Alejandro Jodorowsky (o, perché no, quella di Incontri ravvicinati del terzo tipo o il monte Rushmore di Intrigo internazionale), anche il nuovo, straordinario film di Monika Bulaj, Figli di Noè, ruota intorno alla fascinazione per una montagna. Ma una montagna assolutamente particolare: “i monti del tuono”. Scrive Monika Bulaj: «Un alveare di cristallo, verticale, solitario, isolato dal mondo. Un monolito che solo un esile diaframma collega al resto del Caucaso. Il cielo ne disegna il profilo a gradoni, punteggiato di comignoli fumanti. Il sipario di nubi svela ogni tanto un suo lembo, si squarcia sulla città di pietra e argilla, incastonata nella montagna, sui favi delle finestre dove si riflette l’ultima luce del giorno e la sagoma infuocata di Kyzylkaya, in lingua azera “la roccia d’oro”, la grande montagna più vicina… Un massiccio di pietra e ghiaccio, pieno di nafta e lingue di fuoco, che poi si frantuma nella penisola di Apseron per affondare nel Caspio presso Baku». I figli di Noè del film sono gli abitanti dell’Alto Caucaso dove per più di un anno, con ripetuti viaggi compiuti in tutte le stagioni, la Bulaj si è recata a studiare, incontrare, osservare, fotografare, ma anche per vivere con quelle lontane genti. Figli di Noè perché è proprio qui che circola questa legenda di Noè, «una leggenda che galoppa su tutte le vette della regione del Caucaso, dall’Ararat all’Elbruz, se ne trovano frammenti dappertutto». Una terra strana quella caucasica: «Narra una leggenda secondo la quale Dio, distribuendo a piccole manciate le lingue qua e là sulla terra, inciampò nel Caucaso e ne rovesciò un bel mucchio. Gli arabi chiamavano il Caucaso la montagna delle lingue. Plinio era stupito: ce n’erano più di trecento». Un film a suo modo anche religioso, Figli di Noè: «Nel paesaggio della regione, dei “Templi di fuoco” (il terreno fessurato da cui escono gas e fiamme), c’è qualcosa di primigenio che mi ha sempre affascinato, dice l’autrice. Però non ho fatto un film sulla devozione di queste persone anche se ogni loro gesto contiene qualche cosa di rituale, di religioso». Definire che cosa sia “realmente” il film Figli di Noè, è impresa ardua: non è un documentario in senso stretto anche se documenta in maniera eccezionale la vita che si svolge in quelle lontane terre. Non è un reportage giornalistico anche se in filigrana traspare lo sguardo acuto dell’osservatrice attenta. Non è un film di finzione anche se, in realtà, racconta una storia (anzi: cinque). Ma gli starebbe stretta anche la definizione di docu-fiction. Probabilmente Figli di Noè è un reportage dell’anima, un resoconto personale di un anno vissuto e non semplicemente “osservato” da parte dell’autrice che si è “impossessata” di quella realtà per meglio rappresentarla sulla pellicola e nel video. Pochissimi, quasi inesistenti, i dialoghi, il film si concentra sulle immagini: quelle di una realtà appunto, vissuta e non semplicemente osservata. Che si traduce in uno sguardo partecipe dove non manca naturalmente l’indagine antropologica ma lasciata come in sottofondo rispetto all’attenzione e al coinvolgimento dell’autrice verso i protagonisti delle sue storie.